lunedì 30 marzo 2015

Chiarezza sul Jobs Act

Il Jobs Act è la legge 10 dicembre 2014, n. 183, la quale non fa altro che delegare al Governo l'attuazione di tutta una lista di propositi attraverso una serie di decreti legislativi attuativi che dovranno essere adottati entro sei mesi a partire dalla sua entrata in vigore.

Il primo di questi Decreti attuativi é il Decreto Legislativo 4 marzo 2015, n. 23, che introduce una nuova disciplina dei licenziamenti per i contratti a tempo indeterminato, con la nascita del famoso contratto a tutele crescenti.

La prima cosa da sottolineare é che il decreto si applica solo ai nuovi contratti a tempo indeterminato che saranno firmati dopo la sua entrata in vigore, mentre per tutti coloro che hanno già un contratto a tempo indeterminato rimane valido l'art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300.

L'art.2 del Jobs Act riguarda poi i licenziamenti discriminatori, nulli o intimati in forma orale, per i quali il lavoratore che li subisce faccia ricorso al giudice: in questo caso "il giudice (...) ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto".

La disciplina è la stessa del vecchio articolo 18:

- in caso di licenziamento discriminatorio accertato il datore di lavoro é condannato al risarcimento del danno, che in ogni caso "non potra' essere inferiore a cinque mensilita' dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto. Il datore di lavoro e' condannato, altresi', per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali."

- è previsto il caso in cui invece di riprendersi il posto il lavoratore preferisca "chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un'indennita' pari a quindici mensilita' dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro".

Le novità sono introdotte nel caso di licenziamento per giusta causa e giustificato motivo oggettivo e soggettivo. Prima di tutto qual é la differenza tra questi tre termini?

In breve:

- la giusta causa e il giustificato motivo soggettivo riguardano un inadempimento del lavoratore, (ad esempio insubordinazione, assenze prolungate, risse), dove la giusta causa riguarda i fatti più gravi;
- il giustificato motivo oggettivo riguarda invece il licenziamento determinato “da ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa", ossia legato a difficoltà economiche dell'azienda o a necessità o volontà di riorganizzare l'attività produttiva.

Il Jobs Act stabilisce che, quando il lavoratore faccia ricorso contro il licenziamento e il giudice stabilisce che la causa che ha determinato il licenziamento non esisteva, ossia che il licenziamento non é giustificato, "il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennita' non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilita' dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilita".

Ecco quindi le tutele crescenti: l'indennizzo, in caso di licenziamento ingiustificato, aumenta con l'aumentare degli anni di esperienza nell'azienda. 

E il reintegro? C'é, ed é previsto quando "sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore" ma solo in caso di licenziamento per giusta causa e giustificato motivo soggettivo.
In altre parole, la disciplina afferma che se un'impresa licenzia un lavoratore ufficialmente per difficoltà economiche, ma il giudice dimostra che tali difficoltà economiche non esistono, il lavoratore non ha comunque diritto al reintegro né a un risarcimento danni aggiuntivo.

Probabilmente non é neanche possibile ricorrere a un giudice per contestare i motivi economici o di riorganizzazione dell'attività produttiva che hanno motivato il licenziamento.

E il vecchio articolo 18? La vecchia disciplia prevede il reintegro anche in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo quando si "accerti il difetto di giustificazione del licenziamento intimato, (...) per motivo oggettivo consistente nell'inidoneita' fisica o psichica del lavoratore", quando "il licenziamento e' stato intimato in violazione dell'articolo 2110, secondo comma, del codice civile (infortunio, malattia, gravidanza)" e sopratutto quando si "accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo".

Negli altri casi in cui il giudice accerta "che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo", invece, anche il vecchio articolo 18 non prevedeva il reintegro ma solo l'indennizzo, a tutele crescenti (ossia crescente al crescere dell'anzianità) ma a partire da un minimo di 12 mensilità (invece che le 4 mensilità minime previste dal Jobs Act).

In conclusione, quindi, almeno in teoria il vecchio articolo 18 non impediva all'imprenditore di licenziare per motivi economici o per riorganizzazione, ma prevedeva solo più possibilità per il lavoratore di contestare tale decisione.

Oggi il lavoratore deve accettare il licenziamento e intascare l'indennizzo, che raggiungerà il suo massimo di 24 mensilità solo dopo 12 anni di anzianità.

Resta da chiedersi se un imprenditore puo' nascondere un licenziamento discriminatorio dietro un licenziamento economico. Non sono un giurista ma la disciplina sembra escludere questa possibilità, dove sancisce che il giudice puo' indagare sull'esistenza di una discriminazione e quindi ordinare il reintegro del lavoratore indipendentemente dal motivo del licenziamento che è stato formalmente addotto (e quindi riscontrare la discriminazione anche nel caso in cui formalmente il licenziamento è avvenuto per motivi economici).

Resta infine da chiedersi se questa riforma era veramente necessaria per incoraggiare le assunzioni, se le imprese ne avevano veramente bisogno. Il Renzi del 2012 pensava di NO.
I recentissimi dati del Ministero del Lavoro certificano tra gennaio e febbraio 154.000 contratti a tempo indeterminato in più rispetto allo stesso periodo del 2014, grazie alla spinta degli incentivi economici previsti in legge di Stabilità e non del Jobs Act che é entrato in vigore a marzo.

Sarà necessario aspettare i dati dei prossimi mesi ed i dati più particolareggiati per capire se e quali imprese hanno veramente bisogno di licenziare più facilmente o se quello di cui hanno veramente bisogno da decenni é quella benedetta riduzione del cuneo fiscale che é stata fatta in parte e temporaneamente proprio con gli incentivi della Legge di Stabilità.







martedì 24 marzo 2015

Germania e Deflazione

Vi segnalo questo breve video in cui il Prof. Alberto Bagnai ci spiega perché la Germania continua a insistere con l'austerità malgrado l'Unione Europea sia entrata in deflazione:


Come già spiegato su questo blog, infatti, la stessa BCE ha ammesso che la crisi non é Stata né causata né alimentata dalla fragilità dei conti pubblici di certi Paesi (Italia, Grecia, Spagna, Irlanda e Portogallo), quanto piuttosto dagli errori strutturali commessi dalle Banche private, che non hanno per niente saputo fare il proprio lavoro.

Il Vice-Presidente della BCE Constancio ha ammesso che tante banche private Europee hanno prestato troppi soldi a famiglie ed imprese di Paesi strutturalmente fragili, senza considerare che l'ingresso nell'Euro non trasformava magicamente Italia e Spagna in Germania e Finlandia.

E le banche tedesche sono quelle che più di tutti hanno concesso prestiti nei paesi più deboli subito dopo quelle francesi, diventando grandi creditrici ma rischiando fortemente di non essere più ripagate se la crisi peggiorerà e se alla fine certi paesi saranno costretti ad uscire dall'Euro.

Bagnai sostiene che la Germania ha tutto l'interesse a favorire le politiche deflazionistiche, o comunque a lottare con tutte le forze contro l'inflazione, la quale svaluterebbe la moneta diminuendo il valore dei crediti ancora detenuti dalle proprie banche, malgrado le stesse banche tedesche abbiano fatto di tutto negli ultimi anni per liberarsi dei prestiti erogati nei paesi più fragili dell'Eurozona.

Il grafico seguente mostra l'esposizione delle Banche private tedesche verso i suddetti paesi, ossia il valore dei prestiti/mutui erogati o dei titoli di credito (obbligazioni private/titoli pubblici) acquistati in Italia, Grecia, Spagna, Irlanda e Portogallo (fonte: Bank for International Settlements Statistics).



Come si vede dal grafico, dal 2008 le banche tedesche hanno cominciato a liberarsi massicciamente dei crediti detenuti in quei paesi (vendendo i titoli di credito o non rinnovando finanziamenti in scadenza o semplicemente non concedendo nuovi prestiti). Se le stesse hanno quasi azzerato la loro esposizione verso la Grecia, rimangono ad oggi esposte per circa 110 miliardi di dollari verso la Spagna e circa 130 miliardi di dollari verso l'Italia.

Se analizziamo l'esposizione in base alla tipologia di soggetto finanziato, vediamo come le banche tedesche abbiano ridotto principalmente l'esposizione verso i privati cittadini (Grafico 1), e quella verso le banche (Grafico2)


Grafico 1 - esposizione banche tedesche verso privati in altri paesi (fonte:BIS)


Grafico 2 - esposizione banche tedesche verso banche straniere (fonte:BIS)

Risulta infatti come solo dalla fine del 2010 l'esposizione verso i privati sia diminuita del 67% per l'Irlanda e del 46% per la Spagna, paesi verso cui erano maggiormente esposte; quella verso le banche si é ridotta sopratutto per quelle portoghesi (-83%), quelle irlandesi (-68%) e quelle italiane (-60%).

L'esposizione verso il settore pubblico (Grafico 3), invece, é rimasta piuttosto stabile (Irlanda e Portogallo) o in alcuni casi è aumentata (Spagna e Italia).

Grafico 3 - esposizione banche tedesche verso settore pubblico di altri paesi (fonte:BIS)
Per quanto riguarda la Grecia, dal grafico si nota come le banche tedesche tra il 2011 ed il 2012 si siano liberate praticamente di tutti i titoli di stato greci in loro possesso (-95% in meno di due anni).

La politica del governo tedesco è ancor meglio comprensibile se si considera il grafico sottostante, presentato sempre da Vitor Constancio durante il suo discorso, che indica l'indebitamento o l'accreditamento netto di diversi paesi europei (in percentuale del PIL):



Dal grafico è evidente come dal 2002 la Germania sia l'unico tra i paesi considerati ad affermarsi come creditore netto del resto del mondo, ossia a prestare più soldi di quanti non ne riceva in prestito.
Il richiamo continuo a politiche deflazionistiche di austerità mostra quanto la Germania sia orientata a fare prima di tutto gli interessi delle proprie banche (a breve termine comunque), sforzandosi di proteggere i propri crediti anche a costo di distruggere la domanda interna dei propri mercati di sbocco.


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